“Avevamo ragione noi”: cosa ci insegna Genova dopo 20 anni

Oggi abbiamo l’occasione di ricordare la disfatta di Genova per insegnare alla generazione dopo di noi dove abbiamo fallito.

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Genova 20 anni dopo, una riflessione.

“Avevamo ragione noi”, erano gli anni della militanza studentesca, ero un Giovane Comunista, un giovanissimo di 16 anni e ricordo che le prime mazzate le avevo viste a marzo 2001 durante il Global Forum a Napoli, e poi in un commissariato di polizia a Piazza Garibaldi.

Già da due anni avevo scelto di militare nel Partito della Rifondazione Comunista perché credevo nella necessità di formarmi collettivamente, volevo a tutti i costi uscire dalla povertà culturale che mi circondava nel mio quartiere e a scuola.

Avevo scelto di andare in una scuola lontana dal mio quartiere, mi ero spinto in una zona borghese, perché durante il giro delle scuole avevo notato dei giovani in abbigliamento anticonformista che leggevano libri e fumavano affacciati ad una finestra della scuola.

A 13 anni avevo letto tutte le biografie di Che Guevara e i libri sulla Revolución cubana

Ero inquieto e alla disperata ricerca di punti di riferimento e buoni maestri. Riversai tante speranze nel Partito, e il Partito fu uno strumento di aggregazione fondamentale a quella età, che mi tenne lontano dalla “cattiva strada” attraverso la militanza e il confronto con i compagni sui temi più disparati. Condividere idee e coltivare insieme quel sentimento che ti lascia comprendere le ingiustizie nel profondo, in maniera viscerale, è stata una grande palestra di vita.

Nel 2001 ero un giovanissimo rappresentante d’istituto di una scuola borghese con una capacità di oltre mille studenti, nonostante provenissi dalla periferia est di Napoli. Credevo fermamente nella necessità di fare politica tra compagni di scuola, dentro e fuori dall’aula, credevo fermamente nella necessità di un’organizzazione di massa in grado di mostrare la vita da un altro punto di vista, capace di superare il conformismo e l’asfissia delle istituzioni scolastiche, che mi andavano decisamente strette.

La militanza politica era la cosa che prendevo più seriamente allora, trovavo una disciplina in essa

E durante le manifestazioni chiedevo ai compagni di scuola che sceglievano di manifestare di farlo in maniera disciplinata, scandendo parole d’ordine e cori durante le manifestazioni.

La mia militanza nel partito era connotata da una insistente richiesta di formazione teorica, che non fu mai realmente soddisfatta. Il Partito era un ottimo punto di aggregazione con persone di diversa estrazione, uniti da una visione anticonformista. Ma mentre io volevo approfondire il marxismo-leninismo nella teoria e nella pratica, mi ritrovavo appunto nel pieno del movimento no-global, in cui i testi di riferimento erano quelli di Naom Klein e il simbolo del movimento erano le tute bianche dei disobbedienti.

Guardavo con scetticismo a quel modo di fare militanza, a quelle azioni che sembravano più sceneggiate napoletane

Quelle azioni dettate da piccole manciate di “impavidi” che poco si curavano della massa che si interessava alle istanze di cui avremmo dovuto farci portavoce. Troppo spesso la pratica è andata molto al di là della teoria, spesso, troppo spesso la pratica non è mai stata accompagnata da alcuna teoria.

Ricordo le manifestazioni che diventavano momento di aggregazione di tanti, come fossero giornate di festa per andare a ballare in strada, ricordo che erano gli anni in cui i sound system si impossessavano delle piazze e coprivano le voci di chi gridava i cori, ricordo che si ballava per strada e si fumava tanto, invece che prepararsi in maniera disciplinata, e ricordo quella ondata movimentista che conquistò anche il Partito. Di lì a poco ricordo anche che le istanze marxiste-leniniste e la “classe operaia” furono man mano abiurate dalla dirigenza del Partito, a favore della “disobbedienza civile”.

“Avevamo ragione noi”, ma quella ragione iniziò ad avere sempre meno voce

 

E diventava muta sotto la musica stordente sparata a tutto volume nei cortei, e l’azione di massa di migliaia di persone che accorrevano diventava invisibile davanti alle azioni di chi voleva mettersi in mostra, con azioni simboliche più da supereroi di fumetti americani, piuttosto che militanti politici. Ci ritrovammo una massa informe nelle piazze che gridava e cantava tante parole d’ordine, che venivano poco approfondite, e i tanti colori delle bandiere arcobaleno che confondevano le posizioni di chi era li, come me, per alimentare il conflitto e chiedere giustizia sociale.

Così una massa poco preparata armata di sound system, tute bianche, spade di plastica e poca formazione si era ritrovata a fare i conti con un sistema repressivo molto organizzato e violento.

Dopo 20 anni dovremmo smetterla con il leit motiv “Avevamo ragione noi”

Oggi dovremmo pensare agli errori che abbiamo commesso. La generazione di Genova è figlia della generazione del ’68. Forse credevamo che sarebbe stato facile come in nostri genitori? Loro erano i baby boomers, erano tanti, più o meno preparati, ma avevano la forza dei numeri e dell’organizzazione, per questo hanno conquistato diritti ed oggi sono al potere.

Noi invece siamo una generazione che l’unico boom che ha sentito è stato l’eco del botto della caduta del muro di Berlino, siamo più orfani che figli di qualcuno. E abbiamo scelto i riferimenti sbagliati per scendere in piazza. Avevamo ragione, certo avevamo ragione contro chi devasta il mondo e affama due terzi della popolazione mondiale, ma senza organizzazione ed una salda preparazione teorica i movimenti rivoluzionari si spengono come fuochi di paglia.

Oggi mi domando se 20 anni fa stavamo lottando contro il sistema capitalista, contro l’imperialismo e oggi il problema è ancora lo stesso a livello globale, perché non ripartiamo da una autocritica, e piuttosto che elogiare le nostre ragioni e il nostro vittimismo, non ripartiamo da dove abbiamo iniziato ad affondare?

 

La classe operaia ve la ricordate? Sta ancora lì, in condizioni che peggiorano ogni giorno, e ogni giorno è una piccola Genova per gli operai e i lavoratori proletari

Ma di loro non abbiamo più memoria da ben prima di Genova. Forse dagli Anni ’90 è iniziata la vergogna di rivendicare i valori del marxismo-leninismo, forse perché l’eco della caduta dell’URSS è stato un trauma collettivo? Forse perché l’analfabetismo funzionale è aumentato a dismisura? Forse perché la tv e il cinema americano hanno colonizzato il nostro immaginario?

Oggi abbiamo l’occasione di ricordare la disfatta di Genova per insegnare alla generazione dopo di noi dove abbiamo fallito

Possiamo insegnare a loro a non ripetere gli stessi errori. Oggi tentiamo di invertire la rotta, il piedistallo su cui crogiolarci a noi non è dato averlo, quello appartiene ancora alla generazione che è al potere. Noi siamo una generazione di mezzo, la generazione massacrata dalle riforme scolastiche e dal Jobs act, possiamo insegnare cosa non va fatto, possiamo al limite raccontare le singole ragioni di ognuno di noi. Ma storicamente la generazione di Genova è una generazione, un movimento sconfitto, non solo dalla mattanza del 2001, ma dall’incapacità di elaborare in maniera collettiva la lotta di classe contro il capitale nel XXI secolo.